Oggi per molte persone pensare ad una relazione d’amore è spesso un pensiero che fa paura, e per le responsabilità e l’impegno che una relazione stabile comporta, e per la paura, qualora finisse, di soffrire e risvegliare “antiche ferite del cuore”. Come scrive, Rilke, :

“amare un’altra persona è il compito più difficile per un essere umano”.

Sono parole forti, forse scoraggianti, ma se si riesce a leggerle con un minimo di “distacco emotivo”, è vero che l’amore è fonte di una grandissima gioia e di altrettanta sofferenza, se su di esso si sono investite ,aspettative, energie e progettualità.

Ascoltando tante coppie, di età diverse, con o senza figli mi rendo sempre più conto che, in quasi tutte le situazioni, è presente, una paura, antica, ma potente: la paura non di poter essere amati o meritevoli di amore, se “ci mostriamo per quello che siamo”. Non vi nascondo, che agli inizi di questi racconti, io stessa, restavo incredula, anche se questo timore risultava presente nella maggior parte dei racconti riferiti.

In effetti, la convinzione di essere comunque amati, nella nostra imperfezione, e di amare a nostra volta, in modo “imperfetto” è un nodo che minaccia la maggior parte dei rapporti sentimentali, specie se non vogliono trasformarsi in passatempi o in diversivi della routine. Ciò mi ha portato a chiedermi:

Da dove arriva tutto questo, e cosa posso fare per aiutare coloro che mi chiedono aiuto?

Questo sentimento, che chiamerò ” non amore”, si nutre della mancanza di fiducia in noi stessi, del timore di essere sfruttati e manipolati, se non ci si pone come vuole/desidera l’altro. Sperare di essere “meritevoli di ricevere amore”, tenendo nascosti rabbia, risentimento, e altri disagi affini, finché, non potendone più , si apre il vaso di Pandora con i relativi sospesi, non raramente risalenti ad anni addietro.

A questo punto, il mito del “tutto funziona”, si frantuma, e “la coppia felice, appagata, bella, curata nell’immagine, economicamente solida ” mette in luce due individui, estranei l’uno all’altro, con voglia di rivalsa, di rivincita, dove le delusioni, le insoddisfazioni passivamente subite ed accettate, divengono strumenti di colpevolizzazione reciproca, fino alla distruzione.

Davanti a scenari di questo tipo, il progetto di vita comune, in origine condiviso, diviene a senso unico: percorsi affettivi paralleli, attenzioni per se stessi, autorealizzazione, spazi per nuove relazioni amicali, e quanto a ognuno può essere utile per il proprio benessere, prendono il posto di ciò che dovrebbero costituire i presupposti di un percorso comune.

Piccoli esempi tratti da storie quotidiane

S’iniziano ad un tratto a scoprire nel proprio intimo, inclinazioni altruistiche , dalla compagnia degli animali domestici abbandonati al volontariato sociale ; le vacanze in autogestione, per vedere cosa “offre il mercato,” nell’intento di proporre “un’immagine di sé” degna di apprezzamento.

Con tali premesse, il clima familiare greve, può portare ad accordi di vario genere: dal vivere insieme da “separati in casa”; al “me ne vado”; al,” te la faccio pagare”. Ogni giorno diviene occasione per l’indifferenza più assoluta o per lo scontro voluto e ricercato!

Tralasciamo in questa sede di trattare anche le ricadute sui figli.

A questo punto, credo sorga spontaneo un interrogativo: tutto ciò affioraimprovvisamente?

Niente affatto, il momento in cui il vulcano delle emozioni erutta, è solo il momento in cui la lava cola dopo essere stata trattenuta per molto tempo!

Da dove si origina tutto ciò?

Per la maggior parte delle situazioni, questo distacco nasce in tempi lontani, quasi “preistorici”, della propria vita, a partire dal “non essersi sentiti sufficientemente accolti” nella propria famiglia di origine.

Se l’amore ricevuto dai genitori risulta insufficiente per quel bambino/a rispetto ai suoi bisogni; delegato a terzi, oppure la presenza dell’adulto è più fisica che emotiva, queste insufficienze impattano sul sistema nervoso del minore, strutturando risposte di paura, di sfiducia, di non essere un “bravo bambino”, con l’attribuzione di colpe che non sono proprie.

Questo bagaglio a mano ce “lo portiamo appresso nel corso della vita”, specie nei rapporti affettivi profondi, dove l’adulto ripropone con il partner le stesse modalità interazionali che ha esperito in tenera età.

Per essere amati dai genitori molti bambini si manifestano, non con le loro vere qualità, ma con quelle che sanno essere gradite a papà e mamma. Imparano la compiacenza, seguono i modelli domestici, a discapito del loro “sentire” o “dissentire”. Ne consegue chiusura, per limitare la sofferenza, negazione della propria autenticità, una sorta di dissociazione, della mente e delle emozioni, per ridurre il dolore che ciò comporta.

Questa strategia allontana sempre di più dai due ingressi principali attraverso i quali scorrono i sentimenti: la pancia, il cervello emotivo e il cuore, il centro dell’amore.

Meglio restare affamati di amore, o aprirsi ed esporsi al rischio del rifiuto e alla disapprovazione?

Esistono dei “colpevoli” dei danni indotti?

La risposta più ovvia rimanda ai genitori. Se questo è vero, va tenuto in conto che, lo è solo in parte.

Guardando a me stessa, prima come figlia, poi come donna e professionista, che qualunque “danno” possono arrecare i genitori, non è volutamente intenzionale, ma esprime difficoltà personali e loro incapacità non superate, se mai individuate!

É vero: a volte, i genitori, inducono danni e ferite profonde; mentre noi ci erigiamo a “vittime innocenti”, che hanno subito e continuano a farlo, come fossimo ancora bambini.

É più facile, avere dei capri espiatori e rimanere “al centro dell’interesse degli altri”, o provare a sanare le nostre parti sofferenti?

Dal momento che siamo diventati individui adulti, tocca a noi prenderci cura delle nostre ferite, a nessun altro: né genitori, né amici, né partner!

Il bambino ferito è maggiormente esposto a scegliere partner che ripropongono modelli di relazioni che si accordano con un “copione a lui ben noto”, anche se malsano, ma non è detto che non possa cambiare.

“Dall’amore idealizzato all’amore reale”: un passaggio per crescere ed amare!

Forse scorrendo queste righe a qualcuno potrebbe sopraggiungere il pensiero, non vi sono vie di uscita, dunque?

Ciò che viene definito “iI grande amore” null’altro è che “amore idealizzato”, che presuppone un partner perfetto, a-problematico, teso verso il lieto fine, con problemi di piccola entità, sorrisi e armonia che si sprigionano da ogni dove.

Questo quadretto a me pare tanto finto. A voi?

Le telenovelas, come tanti spettacoli di alto audience propongono stereotipi, dove non esistono contrarietà , ponendo le basi per processi ideativi e schemi cognitivi “disfunzionali”, che divengono modelli interiori di relazioni affettive che nulla hanno a che vedere con la realtà, tranne che non si stia attraversando la fase adolescenziale!

Soggetti più fragili, più bisognosi affettivamente, attraverso queste sequenze filmiche nutrono “fantasie illusorie” dove, vivere insieme, amarsi è sinonimo di: bellezza, efficienza, condivisione, assenza di malesseri fisici e psichici, presenza molto curata, concesso qualche tradimento, ma che non ha nulla a che vedere con il “grande amore”!

Qualcuno, si è mai chiesto: chi pulisce, cucina, recupera i figli, li segue nei compiti , nella crescita, dialoga con loro e con il partner, ricerca soluzioni soddisfacenti per tutti, piuttosto che far fronte a momenti critici?

Certo che, quanto descritto è idilliaco, affascina ed è ammiccante, peccato che la realtà, anche quella più dorata, non funziona secondo questi principi densi di illusioni e finzione.

L’amore reale, comporta condivisione, rispetto per le reciproche risorse e limitazioni, contempla la diversità, richiede duttilità e flessibilità, impegno e fatica, capacità di “stare dentro” alla relazione con la propria personalità. Procede secondo oscillazioni, poiché nulla resta immutato nel tempo e inossidabile, noi per primi e pertanto disponibilità a “mettersi in gioco” e modificare il tiro.

Qualche consiglio?

Non posso congedarmi, senza qualche indicazione di massima, che state aspettando, fin dall’inizio. Premesso, che nella somiglianza, ogni realtà è diversa dall’altra, desidero offrirvi degli spunti in cui ognuno troverà l’ immagine di sé e dell’altro, più verosimile alla propria condizione reale.

Porre attenzione da dove prende origine il biasimo, il risentimento verso sé e verso l’Altro;
L’egocentrismo è un modo per renderci importanti rispetto agli altri, mettendo a tacere sentimenti di vergogna e di colpa
Esercitare potere sugli altri è una modalità che enfatizza il nostro senso di grandiosità,
Imparare ad accettarci ci aiuta nei momenti in cui ci troviamo ad essere diversi da quello che avremmo desiderato,
Mostrarsi benevoli verso se stessi rende più morbidi anche verso gli altri;
Ricordarsi che possiamo imparare ad esser accoglienti, disponibili all’ascolto, al sostegno, all’aiuto, se lo chiediamo in modo spontaneo nel rispetto della nostra autenticità, non della immagine che vogliamo proporre.
Le considerazioni esposte e alcune riflessioni critiche, non sono frutto della sola lettura di testi di psicologia evolutiva o di psico-traumatologia, ma di oltre 15 anni di lavoro con minori in affido e in adozione congiuntamente alle loro famiglie, a cui si sono aggiunti ,negli ultimi anni, realtà di separazioni e divorzio in progressivo aumento, portando a scenari familiari del tutto nuovi anche per noi “addetti ai lavori” per noi “addetti ai lavori”.